Il Morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante con esordio prevalentemente in età presenile, ovvero oltre i 65 anni, ma può manifestarsi anche precedentemente.
La patologia fu descritta per la prima volta nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer, da cui appunto prende il nome.
Il sintomo precoce più frequente è la difficoltà nel ricordare eventi recenti. Con l’avanzare dell’età si possono avere sintomi come: afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. Ciò porta il soggetto inevitabilmente a isolarsi nei confronti della società e della famiglia. A poco a poco, le capacità mentali basilari di ciascun malato di Alzheimer vengono perse. Anche se la velocità di progressione può variare, l’aspettativa media di vita dopo la diagnosi è dai tre ai nove anni.
La causa e la progressione della malattia di Alzheimer non sono ancora ben compresi. La ricerca indica che la malattia è strettamente associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, ma purtroppo la causa di una prima degenerazione non è ancora nota. Attualmente i trattamenti terapeutici utilizzati offrono piccoli benefici sintomatici e possono parzialmente rallentare il decorso della patologia; anche se sono stati condotti oltre 500 studi clinici per l’identificazione di un possibile trattamento per l’Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne arrestino o invertano il decorso. Circa il 70% del rischio si ritiene sia genetico con molti geni solitamente coinvolti. Altri fattori di rischio includono: traumi, depressione o ipertensione.
Proprio qualche giorno fa, però, sembrano essere stati scoperti nuovi potenziali farmaci che rallenterebbero la neurodegenerazione, e quindi il progredire della malattia, riaccendendo quindi una grossa speranza alla lotta contro l’Alzheimer che colpisce migliaia di anziani. Lo rivela uno studio su topi coordinato da scienziati del Medical Research Council (MRC) in collaborazione con la casa farmaceutica Eli Lilly e pubblicato sul Journal of Clinical Investigation.
Le nuove molecole, “ligandi allosterici”, agirebbero accendendo un interruttore nel cervello chiamato “recettore M1” (tecnicamente detto muscarinico). Già in passato si era tentato di agire sul recettore muscarinico – che è stato ipotizzato essere coinvolto nella malattia – attivandolo nel cervello e i test erano anche giunti in fase clinica, tuttavia i farmaci agenti su M1 davano effetti collaterali importanti e quindi le sperimentazioni si bloccarono.
Nel corso di un nuovo lavoro i ricercatori britannici hanno sviluppato una nuova classe di molecole, i “ligandi allosterici”, molto selettive e quindi in grado di accendere M1 senza dare effetti collaterali. Negli animali su cui sono stati testati si è rilevata la possibilità di migliorare i sintomi cognitivi (perdita di memoria e di capacità mentali) della malattia, sia di rallentarne il decorso in termini di neurodegenerazione. Infine, sembra che una somministrazione quotidiana di queste molecole ha mostrato la capacità di aumentare l’aspettativa di vita degli animali.
Si stima che in Italia gli anziani malati di Alzheimer siano circa 600.000, un numero davvero elevatissimo. Queste persone, che con il degenerare della malattia hanno sempre maggiormente bisogno di aiuto, spesso si trovano da sole ad affrontare quelle che sono le piccole e semplici attività quotidiane, che appaiono a loro come delle vere e proprie sfide.
L’Assistenza Domiciliare, spesso si manifesta come la scelta più appropriata da parte delle famiglie per far fronte alla malattia delle persone a loro care. La nostra équipe altamente specializzata garantisce un servizio di presa in carico del paziente a 360°, avvalendosi sia della collaborazione della Dott.ssa Elisa Raimondi, Specialista in Neurologia, sia offrendo un servizio di Assistenza Domiciliare che comprende servizi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali.
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